Il lavoro come forma di emancipazione collettiva è sparito dal dibattito pubblico per cui viviamo un tempo nel quale ognuno è artefice del proprio successo (o insuccesso) in altre parole ciascuno è imprenditore di se stesso. Da molti pulpiti, non tutti, vengono richieste facilitazioni per l’imprenditorialità in nome della parola libertà che ha assunto un nuovo diverso significato. Una libertà cha ha incatenato milioni di uomini e donne nella trappola dell’uomo che si fa da se, un miraggio capace di convincerli alla traversata del deserto alla ricerca dell’oasi del successo mentre relativamente pochi soggetti, un tempo chiamati capitalisti, quelli per capirci che a suon di milioni di euro muovono le leve del capitale finanziario, commerciale ed industriale si godono la vita nei paradisi sparsi per il mondo, questi sì, vere oasi. Cosà è accaduto negli ultimi anni ? Come è stato possibile una tale mutazione del concetto di libertà ? Si è trattato innanzitutto di una vittoria culturale, i ricchi, hanno imposto il loro modello di ‘libertà’ che consiste nel diritto a loro riservato di appropriarsi in maniera legale della maggior parte della ricchezza prodotta da intere comunità. A tale scopo è stato creato artificiosamente una sorta di specchio sociale in cui ognuno specchiandosi ha intravisto la possibilità del successo infine è bastato anteporre la parola imprenditore (agricolo, edile, commerciale, etc. ) ai vecchi e ‘noiosi’ lavori per generare un dispensatore della nuova ‘libertà’. Chiaramente vi sono storie di successo ma nella maggioranza dei casi possiamo osservare uomini e donne alle prese con le difficoltà del lavoro lungo le vicissitudini della vita. Aver trasformato i lavoratori in imprenditori è stato il miglior modo per convincerli a condividere lo stesso sistema di valori dei multimilionari per cui immani ingiustizie sociali vengono culturalmente percepite come conseguenze naturali da sopportare lungo la via della libertà. Tutto questo bailamme ha occultato dal dibattito pubblico italiano le questioni irrisolte della giusta remunerazione del lavoro e delle giuste condizioni di lavoro infatti da oltre venti anni un coro quasi monocolore di pappagalli ripete che occorre ridurre il costo del lavoro dimenticando di avvisare che tra i paesi occidentali l’Italia è la nazione con il costo del lavoro tra i più bassi senza contabilizzare nelle statistiche il lavoro in nero. L’effetto reale riscontrabile come certificato dalle statistiche ufficiali è stato quello di trasferire l’enorme ricchezza prodotta dal lavoro ad una minoranza di individui infatti in Italia ogni anno aumenta il divario tra un esigua minoranza di ricchi ed una moltitudine di poveri. Per cui altro che successo, impresa e libertà, gli ultimi anni sono stati una vera disfatta per il reddito dei lavoratori con evidenti ricadute sui territori in cui è aumentata di conseguenza la sofferenza sociale ed ambientale. Per invertire questa tendenza bisogna innanzitutto ristabilire la capacità culturale dei lavoratori di analizzare e dirigere i mutamenti economici che percorrono la società avendo chiaro in mente che la giusta remunerazione del lavoro sia in termini economici che di condizioni genera equità sociale occorre infine non lasciarsi incantare dalle favole della modernità dal lieto fine in cui l’avvento dell’automazione con la fine del lavoro umano genera per magia la giusta retribuzione un cui tutti vivono felici in ferie e contenti. Occorre precisare che non è possibile ottenere spontaneamente per gentile concessione da parte del profitto o dallo stato la giusta remunerazione del lavoro. Il guadagno, la libertà d’impresa rispondono a leggi economiche scientifiche che ammettono come unica giustizia il diritto all’incremento dei profitti pertanto a questo diritto bisogna contrapporre un eguale diritto scientifico alla giusta retribuzione del lavoro che può essere elaborato unicamente dalle nuove categorie di lavoratori mediante un’organizzazione unica e solidale.
Armando Petrella