Così il comandante Georgi Elisavetskj ricorda quel 27 Gennaio 1945:
“Ancora oggi, il sangue mi si gela nelle vene quando nomino Auschwitz; quando sono entrato nella baracca ho visto degli scheletri viventi che giacevano sui letti a castello a tre piani. Come in una nebbia, ho sentito i miei soldati dire: «Siete liberi, compagni!» Ho la sensazione che non capiscano e comincio a parlargli in russo, polacco, tedesco, nei dialetti ucraini. Mi sbottono il giubbotto di pelle e mostro loro le mie medaglie… Poi ricorro allo yiddish. La loro reazione ha dell’incredibile. Pensano che stia provocandoli; poi cominciano a nascondersi. E solamente quando dissi: «Non abbiate paura, sono un colonnello dell’Esercito sovietico e un ebreo. Siamo venuti a liberarvi» […] Finalmente, come se fosse crollata una barriera… ci corsero incontro urlando, si buttarono alle nostre ginocchia, baciarono i risvolti dei nostri cappotti e ci abbracciarono le gambe. E noi non potevamo muoverci; stavamo lí, impalati, mentre lacrime impreviste colavano sulle nostre guance”